giovedì 29 agosto 2013


GIOVANNI PAOLO II. 
ESISTENZA DI DIO
UDIENZA GENERALE. 
Mercoledì, 10 luglio 1985


1. Quando ci chiediamo: “Perché crediamo in Dio?”, la prima risposta è quella della nostra fede: Dio si è rivelato all’umanità, è entrato in contatto con gli uomini. La suprema rivelazione di Dio ci è venuta in Gesù Cristo, Dio incarnato. Noi crediamo in Dio perché Dio si è fatto scoprire da noi come l’essere supremo, il grande “esistente”.
Tuttavia, questa fede in un Dio che si rivela, trova anche un sostegno nei ragionamenti della nostra intelligenza. Quando riflettiamo, constatiamo che non mancano le prove dell’esistenza di Dio. Queste sono state elaborate dai pensatori sotto forma di dimostrazioni filosofiche, secondo il concatenamento di una logica rigorosa. Ma esse possono rivestire anche una forma più semplice e, come tali, sono accessibili a ogni uomo che cerca di comprendere ciò che significa il mondo che lo circonda.

2. Quando si parla di prove dell’esistenza di Dio, dobbiamo sottolineare che non si tratta di prove d’ordine scientifico-sperimentale. Le prove scientifiche, nel senso moderno della parola, valgono solo per le cose percettibili ai sensi, giacché solo su queste possono esercitarsi gli strumenti di indagine e di verifica, di cui la scienza si serve. Volere una prova scientifica di Dio, significherebbe abbassare Dio al rango degli esseri del nostro mondo, e quindi sbagliarsi già metodologicamente su quello che Dio è. La scienza deve riconoscere i suoi limiti e la sua impotenza a raggiungere l’esistenza di Dio: essa non può né affermare, né negare questa esistenza.
Da ciò non deve tuttavia trarsi la conclusione che gli scienziati siano incapaci di trovare, nei loro studi scientifici, motivi validi per ammettere l’esistenza di Dio. Se la scienza, come tale, non può raggiungere Dio, lo scienziato, che possiede un’intelligenza il cui oggetto non è limitato alle cose sensibili, può scoprire nel mondo le ragioni per affermare un essere che lo supera. Molti scienziati hanno fatto e fanno questa scoperta.
Colui che, con uno spirito aperto, riflette su quello che è implicato nell’esistenza dell’universo, non può impedirsi di porre il problema dell’origine. Istintivamente, quando siamo testimoni di certi avvenimenti, ci chiediamo quali ne siano le cause. Come non fare la stessa domanda per l’insieme degli esseri e dei fenomeni che scopriamo nel mondo?

3. Un’ipotesi scientifica come quella dell’espansione dell’universo, fa apparire più chiaramente il problema: se l’universo si trova in continua espansione, non si dovrebbe risalire nel tempo fino a quello che si potrebbe chiamare il “momento iniziale”, quello in cui quell’espansione è cominciata? Ma, quale che sia la teologia adottata circa l’origine dell’universo, la questione più fondamentale non può essere elusa. Questo universo in costante movimento postula l’esistenza di una causa che, dandogli l’essere, gli ha comunicato questo movimento e continua ad alimentarlo. Senza tale causa suprema, il mondo e ogni moto in esso esistente resterebbero “inspiegati” e “inspiegabili”, e la nostra intelligenza non potrebbe essere soddisfatta. Lo spirito umano può ricevere una risposta ai suoi interrogativi solo ammettendo un essere che ha creato il mondo con tutto il suo dinamismo, e che continua a sostenerlo nell’esistenza.

4. La necessità di risalire a una causa suprema s’impone ancora di più quando si considera la perfetta organizzazione che la scienza non cessa di scoprire nella struttura della materia. Quando l’intelligenza umana si applica con tanta fatica a determinare la costituzione e le modalità di azione delle particelle materiali, non è forse indotta a cercarne l’origine in un’intelligenza superiore, che ha concepito tutto? Di fronte alle meraviglie di quello che si può chiamare il mondo immensamente piccolo dell’atomo, e il mondo immensamente grande del cosmo, lo spirito dell’uomo si sente interamente superato nelle sue possibilità di creazione e persino di immaginazione, e comprende che un’opera di tale qualità e di tali proporzioni richiede un Creatore, la cui sapienza trascenda ogni misura, la cui potenza sia infinita.

5. Tutte le osservazioni concernenti lo sviluppo della vita conducono a un’analoga conclusione. L’evoluzione degli esseri viventi, di cui la scienza cerca di determinare le tappe e discernere il meccanismo, presenta un interno finalismo che suscita l’ammirazione. Questa finalità che orienta gli esseri in una direzione, di cui non sono padroni né responsabili, obbliga a supporre uno Spirito che ne è l’inventore, il creatore.
La storia dell’umanità e la vita di ogni persona umana manifestano una finalità ancor più impressionante. Certo, l’uomo non può spiegare a se stesso il senso di tutto ciò che gli succede, e quindi deve riconoscere che non è padrone del proprio destino. Non solo egli non ha fatto se stesso, ma non ha nemmeno il potere di dominare il corso degli avvenimenti nello sviluppo della sua esistenza. Tuttavia è convinto di avere un destino e cerca di scoprire come l’ha ricevuto, com’è iscritto nel suo essere. In certi momenti può discernere più facilmente una finalità segreta, che traspare da un concorso di circostanze o di avvenimenti. Così è portato ad affermare la sovranità di colui che l’ha creato e che dirige la sua vita presente.

6. Infine, tra le qualità di questo mondo che spingono a guardare verso l’alto, vi è la bellezza. Essa si manifesta nelle svariate meraviglie della natura; si traduce nelle innumerevoli opere d’arte, letteratura, musica, pittura, arti plastiche. Si fa apprezzare pure nella condotta morale: vi sono tanti buoni sentimenti, tanti gesti stupendi. L’uomo è consapevole di “ricevere” tutta questa bellezza, anche se con la sua azione concorre alla sua manifestazione. Egli la scopre e l’ammira pienamente solo quando riconosce la sua fonte, la bellezza trascendente di Dio.

7. A tutte queste “indicazioni” sull'esistenza di Dio creatore, alcuni oppongono la virtù del caso o di meccanismi propri della materia. Parlare di caso per un universo che presenta una così complessa organizzazione negli elementi e un così meraviglioso finalismo nella vita, significa rinunciare alla ricerca di una spiegazione del mondo come ci appare. In realtà, ciò equivale a voler ammettere degli effetti senza causa. Si tratta di una abdicazione dell’intelligenza umana, che rinuncerebbe così a pensare, a cercare una soluzione ai suoi problemi.
In conclusione, una miriade di indizi spinge l’uomo, che si sforza di comprendere l’universo in cui vive, a orientare il proprio sguardo verso il Creatore. Le prove dell’esistenza di Dio sono molteplici e convergenti. Esse contribuiscono a mostrare che la fede non mortifica l’intelligenza umana, ma la stimola a riflettere e le permette di capire meglio tutti i “perché” posti dall'osservazione del reale.

domenica 25 agosto 2013

È tutto relativo e non c’è verità?



Possiamo conoscere la verità? O tutto è relativo e in definitiva ognuno ha la sua verità? Probabilmente una delle prime cose che potrebbe far barcollare il tuo edificio intellettuale o la tua fede è il relativismo, vale a dire, la concezione che non ammette principi assoluti nel campo del conoscere e dell’attuare.

Per il relativismo, ognuno ha la sua verità, ognuno comprende le cose attraverso una visione propria e personale basata sui suoi gusti, la sua educazione o i suoi interessi. Per chi la pensa così, non solo diventa difficile l’adeguata comprensione di quello che gli altri pensano ma diventa impossibile raggiungere un accordo, ammesso che non ci sia, propriamente parlando, una verità oggettiva valida e obbligatoria per tutti. Così iniziano a demolire i princìpi religiosi, i criteri morali sui quali ci reggiamo, e la vittima di questo schiacciante attacco sprofonda in una autentica “depressione intellettuale”.

Il relativismo è il cancro fatale che tarla la cultura contemporanea. Tuttavia è anche la fallacia più grande in cui può cadere la mente umana e che non può farsi accettare se non ingannandoci per mezzo di sottili sofismi. Il relativismo, nell’ambito della conoscenza, nega la possibilità di raggiungere verità universali e oggettive. Nell’ambito morale è la negazione di poter arrivare a conoscere i valori e i beni oggettivi e agire di conseguenza (ossia nega la possibilità di poter affermare che un comportamento è cattivo per tutti o che un altro è sempre buono). Nella vita quotidiana cadono in questo errore tutti quelli che non accettano le verità assolute; coloro che sostengono che “ognuno ha la sua verità”, e che tacciano di “fondamentalismo” tutti quelli che sostengono con fermezza la verità della fede.

Qual è la fondamentale critica al relativismo? O meglio, per dirla con ciò che può interessarci di più: è vero che non c’è verità? La verità è l’adeguamento della nostra mente alle cose, pertanto o c’è verità oggettiva (adeguata alla realtà) e quindi valida per tutti gli esseri intelligenti, o semplicemente non esiste la verità ma opinioni, che sono apprezzamenti diversi sulle cose. La critica più essenziale che si può formulare al relativismo, oltre alle altre di carattere estrinseco, come sarebbe la dimostrazione dell’esistenza di una verità assoluta, di evidenze universali, consiste nel fatto che ogni relativismo implica una contraddizione intrinseca.

Sostenendo la tesi secondo cui nessun giudizio gode della proprietà di essere veritiero nel senso assoluto e che ogni verità è relativa sorge, come conseguenza ineludibile, che nemmeno il giudizio “ogni verità è relativa” può avere un carattere di validità assoluta, fatto che distrugge, con le proprie armi, il relativismo. Se, dato un certo fattore condizionante, si ammette come verità che ogni verità è relativa, posto l’altro fattore distinto si dovrà ammettere come veritiero che ogni verità è assoluta, il che è una contraddizione con la tesi fondamentale del relativismo.

Inoltre, l’esistenza della verità (intendendo la verità come qualcosa di oggettivo e universale, invariabile e superiore a qualsiasi opinione umana) è una certezza del senso comune; appartiene così tanto al senso comune che, basandoci sul fatto che ci sono verità oggettive, ci sposiamo, seminiamo, saliamo su una barca o su un aereo, compriamo e vendiamo e ci lasciamo uccidere difendendo la patria o le persone che amiamo.

Perché non ci sono dubbi sul fatto che ci sono verità oggettive, ripetiamo i proverbi a modo di verità oggettive coltivate dalla filosofia popolare: “chi non guarda avanti, rimane indietro”; “le bugie hanno le gambe corte”; “l’apparenza inganna”; “chi ha il pane non ha i denti”; “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”; etc. Questo non suppone che crediamo nel valore oggettivo delle cose e delle verità che le esprimono? Chi si sposerebbe se dovesse accettare che una cosa sarà la fedeltà per me, un’altra per te? Chi si imbarcherebbe se non fosse sicuro del principio per il quale un corpo solido può galleggiare in determinate condizioni o chi salirebbe su un aereo basandosi solo sul fatto che il pilota opina che il suo aereo è in grado di mantenersi sull’aria? Ma non solo abbiamo una certezza popolare dell’esistenza e del valore oggettivo della verità, bensì una certezza scientifica
della stessa. La verità esiste e non può essere negata, poiché come dice tra gli altri Tommaso d’Aquino, “chi nega che esiste la verità, ammette che esiste una verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di vero, bisogna che esista la verità”[1]. Sembra uno scioglilingua, ma è un sillogismo… perfetto.
La nostra intelligenza è capace di ragionare e di raggiungere l’essere delle cose, la realtà. Conosciamo l’essere delle cose, come ci insegna una sana filosofia e come lo riconosciamo nella pratica, nonostante professiamo la più ostinata delle filosofie soggettiviste, poiché il più grossolano negatore del fatto che possiamo conoscere la verità assoluta delle cose è capace di muovere cielo e terra perché gli paghino lo stipendio (come sa che è suo? E se il datore di lavoro opina che non lo deve pagare?), e attento a chi gli tocchi sua moglie o i suoi beni, e in questo non valgono le opinioni né quella che ognuno abbia la sua verità (anche il ladro dice di avere la sua verità, e questa è che gli piace di più la mia auto che la sua e per questo decide di appropriarsene; che cosa gli risponderò io, miserabile relativista? “Signore, se lei la vede così, qui ci sono le chiavi, scusi se ho pensato male di lei”. Un relativista può insegnare il relativismo per tutta la sua vita con piena convinzione (il che sarebbe contrario al relativismo); ma se andasse in un ristorante “relativista” e chiedendo una lepre si vedesse portare un gatto perché il padrone del ristorante dal suo punto di vista sostiene che il gatto è uguale alla lepre, non solo può veder crollare il suo sistema in pochi secondi ma potrebbe passare il resto “relativo” della sua vita in prigione per tentato omicidio del proprietario di un ristorante.

Ogni relativista è, necessariamente, un incoerente nella vita reale. Anche in questo modo è difficile far comprendere ad un relativista il suo errore (non il dimostrarglielo, ma ottenere che l’accetti) perché il relativismo è una forma di stupidaggine, e la stupidaggine non solo suole essere un peccato, ma anche un castigo in cui cade chi non ha amore per la verità. Costui si può castigare nell’unico modo che può capire: chiedendogli che ci restituisca il nostro denaro. Poiché mi dirà che ciò che insegna ha valore solo per lui e che è molto probabile che io abbia un’altra opinione, che lui non pensa di condividere, ma nemmeno di rifiutare… meglio che mi restituisca il mio denaro, e che io me ne ritorni a casa, perché questo lo riesco a capire!



[1] Tra gli altri luoghi lo insegna nella Summa Teologica I, 2, 1 ad 3


Tratto dal libro di P.Miguel Angel Fuentes “Le verità rubate”.