lunedì 28 novembre 2016

La filosofia e la demitizzazione dell’età antica

Che cosa ha significato la nascita della filosofia? E quali conseguenze ha prodotto questa immensa scoperta?

E’ risaputo che la filosofia sia nata nel VII secolo a.C. nelle colonie greche dell’Asia Minore, ed è altrettanto noto il fatto che le condizioni politico-culturali delle poleis greche abbiano favorito lo sviluppo delle arti, in particolare la poesia, cui inizialmente è legato il pensiero filosofico. Ogni manuale di Storia della Filosofia ha come primo capitolo una riflessione su questo fatto, incontrovertibile, che ci immette immediatamente nella cosiddetta filosofia naturalistica, vale a dire della ricerca dell’Arché e delle cause del mondo fisico che i primi filosofi individuano in un principio supremo fisico[1] come l’acqua, il fuoco, l’aria, etc.

Questa breve introduzione è presente in ogni manuale di storia della filosofia. Ma nel passaggio tra la spiegazione della nascita della filosofia ed i primi filosofi, mi sembra che si perda di vista una caratteristica fondamentale: almeno in teoria, la filosofia non poteva nascere né nella Grecia del VII secolo né, tantomeno, in tutto il mondo classico. Non è una contraddizione dire una cosa di questo genere (e tra poco spiegherò meglio cosa voglio dire) perché anche questo è un dato incontrovertibile: la filosofia nasce in un ambiente quasi del tutto ostile allo sviluppo di questa disciplina perché impregnato (se non addirittura fondato) sulla religione greca, caratterizzata dal politeismo e dalla onnipresenza del Fato. Il paganesimo in generale (compreso quello che ancora oggi si trova oggi in diverse popolazioni nel Mondo, tra cui possiamo citare diverse tribù della Papua e della Tanzania) vede il mondo, cioè tutto ciò che noi comunemente chiamiamo creato, come pervaso e/o animato da forze divine che rendono pertanto inconoscibile ed intoccabile ogni cosa: in questa visione del mondo, pertanto, gli eventi fisici sono espressione dell’umore degli dei (che può essere più o meno adirato con gli uomini) ma sono anche delle teofanie vale a dire la manifestazione della natura profonda del dio. E’ difficile per noi uomini del XX sec, eredi di cultura impregnata volente o nolente sia di cristianesimo che di filosofia, capire una cosa del genere. Sappiamo bene infatti che i fenomeni fisici soggiacciono a rigide leggi che sono sempre uguali nel tempo e nello spazio e che rendono alcuni eventi inevitabili, se non per espresso intervento di un agente esterno. Facciamo un caso semplice: se spingo con violenza un mio amico, questi adrà pesantemente a terra (evento inevitabile) a meno che non intervenga un altro amico che lo tratterrà dal cadere, rendendo così l’evento evitato. Facendo un esempio diverso, se rimango con i panni bagnati tutto il giorno, la mattina seguente sarà inevitabile che mi verrà un raffreddore: per provare ad evitarlo, infatti, io dovrò asciugarmi per bene e prendere una bella aspirina[2]

Per noi è comune ragionare in questo modo, ma nel VII secolo a.C. non era esattamente così: anche il sistema teologico pagano infatti prevedeva che gli uomini soggiacessero alle leggi degli dei, i quali potevano anche manifestare più o meno apertamente i propri umori[3], sia al Fato al quale, addirittura!, erano sottoposti gli stessi dei[4]: gli uomini pertanto non erano propriamente liberi né nelle loro scelte né nel rapporto con il mondo circostante cosicché era abituale (e continua ad essere normale per le culture pagane che ancora esistono oggigiorno) non opporsi al caos che si vede regnare nella natura. Le forze della natura potevano semplicemente o essere assecondate oppure si cercava di placare i variabili umori degli dei (che, ripetiamo, governano le forze della natura) per poter cercare di sopravvivere: si tratta di una vera e propria stasi nella vita dell’uomo in quanto le forze divine soverchiano i deboli tentativi degli uomini. Non c’è, in pratica, un vero e proprio progresso (che prevede la soluzione, temporanea o duratura, di un problema che si pone dinanzi all’uomo) ma di un continuo ritorno: anche la concezione della storia è influenzata da questi eventi, in quanto si avrà una concezione ciclica della storia che annulla il valore infinito di ogni comportamento umano riducendolo solamente ad un atto all’interno del tutto[5].

Ebbene, fatta questa dovuta premessa, con la nascita della filosofia noi assistiamo invece ad un capovolgimento: l’uomo può indagare la natura delle cose, può entrare in esse, può decifrarle, può addirittura sottomerle al suo giudizio (giudizio di un uomo fallace, beninteso). Ma se l’uomo riesce a far questo, vuole dire che non considera più le cose come divine o, quantomeno, pervase dal divino: come potrebbe, ad esempio, un semplice essere umano contrastare con Poseidone per speculare sulla natura dell’acqua? Ma al di là del dato meramente fisico, quest’uomo sarà costretto a porsi anche una domanda circa la realtà profonda, vale a dire la realtà metafisica[6], dell’acqua. Ma per fare questo, quest’uomo sarà costretto a vederle come universali, cioè uguali nel tempo e nello spazio, e sarà costretto ad astrarre la natura della cosa, ma anche a postulare dei principi che saranno validi nel tempo e nello spazio per poter compiere la propria speculazione: tra questi ultimi, sono da ricordare il principio di non contraddizione[7] senza il quale non sarebbe mai stata possibile alcuna ricerca filosofica ma anche nessuna scienza, cui seguono il principio di identità[8] ed il principio del terzo escluso[9].

Tra i tre principi, quello di non contraddizione è quello di fondamentale importanza perché l’uomo si percepisce come un qualcosa di diverso da ciò che lo circonda e, pertanto, come soggetto operante sulle cose, le quali a loro volta sono diverse tra di loro, e se procedessimo nell’applicazione del principio a tutte le realtà capiremo sia che noi uomini siamo diversi dagli dei ma che anche gli dei sono diversi sia da noi che dalle cose: il filosofo compie in questo modo una vera e propria demitizzazione del reale, permettendo all’uomo di poter scoprire i meccanismi che regolano il mondo fisico ma anche di indagare la realtà profonda delle cose, che in filosofia prende il nome di ontologia[10].

Solamente partendo dal principio di non contraddizione l’uomo ha potuto sviluppare i sistemi filosofici che conosciamo[11], ma anche svolgere le più semplici analisi fisiche[12]: la comprensione e l’accettazione di questo basilare principio ha permesso all’umanità tutta, grazie all’opera dei primi filosofi (molti dei quali rimasti anonimi ma ai quali va tutta la nostra gratitudine) di uscire dall’universo mitico in cui è sommersa se impregnata di paganesimo.

Nei prossimi articoli continueremo a sviscerare la portata rivoluzionaria della nascita della filosofia e che fin da subito ha riguardato anche quelle che noi chiamiamo scienze matematiche, a cominciare dalla geometria che possiamo definire come la rappresentazione ideale della natura delle cose. Appuntamento pertanto alla prossima settimana!

Francesco Del Giudice



[1] E’ doveroso mettere il termine in corsivo perché per i primi filosofi questi fondamenti avevano comunque una natura non fisica, benché non conoscessero la terminologia metafisica per descriverla in maniera chiara e precisa.

[2] In teologia l’esempio principale è dato dai miracoli fisici, vale a dire dall’irruzione di un agente esterno (Dio) per modificare radicalmente una situazione inevitabile. La Chiesa Cattolica ad esempio riconosce come miracoli solamente quelle guarigioni improvvise, impossibili da spiegare e durature nel tempo: i verdetti medici in questi casi riportano genericamente la dicitura di scientificamente ad oggi impossibile da spiegare.

[3] A riprova di questo fatto, si veda il comportamento degli dei, ad esempio, nell’Iliade e nell’Odissea.

[4] «Coro: Chi governa la necessità? / Prometeo: Le Moire che tessono il filo e le Erinni dalla memoria implacabile. / Coro: E Zeus è più debole di loro? / Prometeo: Anche Zeus non può sfuggire a ciò che è destinato»: Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 515-518.

[5] Si veda il primo articolo, del 19 Novembre 2016, della Rubrica di Storia Lux Veritatis di questo stesso blog.

[6] Il termine deriva dal latino medievale metaphysica, che a sua volta deriva dal greco μετ τ ϕυσικ. Aristotele definiva questa dottrina con il termine «filosofia prima» (πρτη ϕιλοσοϕία), da lui definita come teoria dell’«ente in quanto ente» (ν ν; in latino: ens qua ens), che studia la realtà considerata solo nei suoi caratteri universalissimi che la fanno essere tale. Il termine non è quindi aristotelico ma deriva dalla catalogazione dei libri del filosofo di Stagira in cui il libro sulla filosofia prima veniva dopo (μετ in greco) quello della fisica.

[7] In sintesi: A non è Non-A. In linguaggio matematico: A ≠ ­A. La definizione di Aristotele è la seguente: «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo»: Aristotele, Metafisica, Libro Gamma, cap. 3, 1005 b 19-20.

[8] In sintesi: A è uguale ad A. In linguaggio matematico: A = A.

[9] La locuzione latina di Tertium non datur (non c’è una terza cosa) è emblematica per spiegare questo principio in cui due proposizioni, tra loro contraddittorie, cioè aventi una un giudizio affermativo e l’altra un giudizio negativo, non possono essere entrambe né contemporaneamente vere né contemporaneamente false: è necessario infatti che il giudizio di una sola di esse sia vera, e che la falsità dell’uno implichi la verità dell’altro, senza avere una terza possibilità.

[10] Il termine deriva dal greco ντος, (genitivo singolare del participio presente ν del verbo εμί, tr.: essere) e da λόγος («parola, discorso, ragione»).

[11] Ciò non nega il fatto che si siano potuti creare interi sistemi in cui il principio di non contraddizione era di fatto negato: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare, alla polemica tra Agostino e gli gnostici del V secolo.

[12] Lo stesso linguaggio di programmazione dei computer prevede una serie di 0 e di 1 che non si possono né mescolare né confondere.


sabato 26 novembre 2016

Isabella la Cattolica, gloria e onore della Spagna e della Chiesa
             
Oggi, 26 Novembre, ricorre l’anniversario della morte di Isabella di Castiglia (22.04.1451 – 26.11.1504), meglio conosciuta come di Isabella la Cattolica. Ricorrendo questo anniversario, vorremmo dedicare tre articoli della nostra rubrica Lux Veritatis a questo straordinario personaggio storico dividendoli in questo modo: 1) presentazione generale della Regina, 2) Riconquista di Granada e Scoperta dell’America; 3) legislazione di Isabella e dei suoi successori in favore degli indios.


La figura di Isabella la Cattolica probabilmente è sconosciuta alla maggior parte delle persone ed è famosa solamente per la revoca del permesso di residenza agli ebrei spagnoli (chiamato erroneamente come “decreto di espulsione degli ebrei”) e per l’Inquisizione spagnola. Qualcuno, potrà aggiungere che si tratta della moglie di Ferdinando d’Aragona e che spedì Colombo in un’esplorazione oceanica che poi portò alla scoperta dell’America.

Ma le gesta e gli avvenimenti relativi ad Isabella la Cattolica sono infinitamente di più e si potrebbero organizzare dei corsi universitari annuali su di lei senza che gli argomenti siano completamente sviscerati: si pensi che la televisione spagnola (TVE) ha realizzato tra il 2012 ed il 2014 una serie televisiva sulla Regina (chiamata Isabel) divisa in 3 stagioni formate da 13 puntate da circa 80 minuti ciascuna[1], in cui non è stato possibile narrare tutte le sue gesta, tralasciandone anche qualcuna di fondamentale importanza. Molte persone inoltre, compresi numerosi cattolici, sono all’oscuro del fatto che è tutt’ora in corso il suo processo di canonizzazione, che la Regina gode pienamente del titolo di Serva di Dio e che può essere pregata per impetrare ed ottenere grazie e favori da Dio.

Poiché non è un mistero che nei libri di storia siano citati personaggi meno importanti di Isabella[2] ed avvenimenti di minor rilevanza rispetto alla Conquista di Granada, è doveroso porci questa domanda: perché non si conosce questa figura di donna, di sovrana, di fedele cattolica, come si converrebbe? E perché le sue gesta, benché abbiano avuto conseguenze enormi e durature su tutto il mondo, e che in alcuni casi perdurano ancora oggi, non sono conosciute?

Va precisato fin da subito che la Storia della Spagna non è un argomento molto di moda in Italia né a livello scolastico[3] né a livello universitario[4] e la situazione è ancora più paradossale se pensiamo invece che solamente la politica matrimoniale attuata da Isabella e Ferdinando ha ridisegnato tutti gli equilibri politici europei (e dunque mondiali) per almeno 2 secoli. Il paradosso infatti è questo: è assurdo cercare di capire la Storia Moderna senza voler studiare Isabella e Ferdinando ma, d’altro canto, è ciò che avviene quotidianamente in (quasi) tutti gli ambienti di studio.

Quanto appena descritto, è frutto dell’opera della leyenda negra[5] che grava sulla Spagna (e, più in generale, sulla Chiesa Cattolica) che ha fortemente sminuito, se non oscurato, la figura di Isabella che fu la Sovrana che con suo marito Ferdinando riformò l’intera Spagna[6] in ogni sua componente, politica come religiosa. E’ indubbio inoltre, che l’operato della Regina forgiò una nuova Spagna, radicata nella fede cattolica, facendola diventare il Regno più importante del Mondo ed il braccio destro della Chiesa fino a tutto il XVII secolo.

Isabella operò una riforma in capite et membris di tutto il suo Regno, preoccupandosi di ogni aspetto della vita dei suoi sudditi. Tra le tantissime cose che possiamo segnalare, basti ricordare che per quanto riguarda la riforma della Chiesa spagnola cercando sempre di favorire l’elezione di vescovi di indubbia fama e permanessero quanto più possibile nella propria diocesi (per capire questo punto bisogna ricordarsi che l’obbligo di residenza dei vescovi nelle proprie diocesi verrà stabilito successivamente dal Concilio di Trento) ma anche cercando di favorire ordini religiosi riformati o di stretta osservanza (in particolare Geronimini e Francescani); venne ridisegnato il ruolo dell’aristocrazia, diminuendone i privilegi e i poteri in favore di un rafforzamento della Monarchia che invece si era mostrata troppo debole nei decenni precedenti; si cercò in tutti i modi di conquistare l’Africa Atlantica e Mediterranea con l’unico scopo di poter giungere a Gerusalemme e riconquistare il Santo Sepolcro; istituì nuove Università dove potevano insegnare anche donne; si adoperò alla creazione di una classe dirigente formata da tutti gli strati sociali della popolazione, favorendo così la cosiddetta mobilità sociale spesso a carico della Corona.

Ma chi era Isabella? Per rispondere a questa domanda conviene rivolgersi ai suoi contemporanei, i quali rimanevano affascinati dalla sua persona (tanto da essere chiamato una donna virile) e dal suo agire sempre derivante dalla fede: gli scrittori dell’epoca concordano sul fatto che «sembrava condurre una vita più contemplativa che attiva»[7] e che «assolveva a tutti i compiti propri dei sacerdoti»[8]: per quanto possa sembrare assurdo (abituati come siamo alla supremazia della Ragion di Stato, alle convergenze parallele, alla continua ricerca dell’equilibrio politico e sociale) l’operato di Isabella si capisce solo se si valuta partendo da un punto di vista di fede, personale ma anche vissuta in pubblico, che ella stessa cercò di coltivare fin da giovanissima andando sempre alla ricerca di padri spirituali di fede sincera e di indubbia fama. A riprova del fatto che ogni suo atto risente ed è espressione della sua fede, si pensi, solamente per fare tre esempi tra gli innumerevoli che potremmo citare, che mise i suoi Regni sotto la protezione di San Giovanni Evangelista (inserendo il simbolo dell’aquila anche nel proprio stemma); si occupò dell’eliminazione di gravi abusi liturgici contro l’Eucarestia[9]; e chiese personalmente a Papa Giulio II di imporre il silenzio a quanti negavano l’Immacolata Concezione di Maria[10] (verità che all’epoca non era stata ancora proclamata dogma di fede, e quindi soggetta a legittimo dibattito).

Isabella e Ferdinando, uniti in matrimonio nel 1469, divennero ben presto i Sovrani più importanti di tutta Europa e pur essendo Monarchi di una nazione “periferica” seppero invece imporsi all’attenzione di tutte le altre teste coronate del Mondo, uscendo anche fuori dai confini della Cristianità. Compiuta, con la Reconquista di Granada, l’unificazione territoriale della Spagna nel 1492 Isabella e Ferdinando divennero i protettori dei cristiani del Medio Oriente, ottenendo dal Sultano un Patronato sulle Basiliche e le chiese della Terra Santa, che Isabella personalmente sosteneva con ingenti elemosine annuali (questo suo prodigarsi in favore della Custodia di Terra Santa le meritò, in vita, il paragone con Sant’Elena) ma anche con azioni diplomatiche volte ad intimorire il Sultano, come quella di Pedro Martír de Anglería del 1501, oppure con la garanzia di protezione accordata all’Impero di Georgia nel 1495.

Ma Isabella fu anche la Regina che seppe preoccuparsi dei propri sudditi in qualsiasi momento della loro vita, in particolare quelli più tristi e dolorosi: tramite infatti un vero e proprio incarico pubblico (l’Elemosiniere Regio) Isabella riusciva ad aiutare il popolo, che si rivolgeva a lei oppure ai suoi collaboratori sparsi per tutto il Regno. Questo è un capitolo poco conosciuto della vita della Regina ma che ci mostra come Isabella abbia saputo applicare alla lettera, in particolare durante le solennità e le feste del calendario liturgico, le Opere di Misericordia Corporali che la Chiesa ci insegna, dal dar da mangiare agli affamati al seppellire i morti. L’attenzione per i sofferenti e i moribondi la portarono, durante la Guerra di Granada, sia a creare un ospedale da campo (che logicamente era chiamato l’Ospedale della Regina, la cui gestione era affidata anche alle collaboratrici più intime e strette della Regina) sia a visitare il fronte ed i feriti: come racconta il contemporaneo Bernáldez, «questo faceva degli uomini, dei leoni, e dei vassalli, degli schiavi, [cosicché] non vi erano disertori»[11].

Il suo essere una donna forte si vede anche nel suo matrimonio, avvenuto quando aveva 18 anni. Suo fratello, Re Enrico IV di Castiglia, voleva darla in sposa a diversi pretendenti (con il chiaro obiettivo di farla uscire dal Regno in quanto Regina Consorte di un altro Sovrano), tra cui il potente Re del Portogallo, ma Isabella si oppose fermamente a questa scelta, andando lei stessa alla ricerca di quello che sarebbe diventato il suo marito. Alla fine scelse Ferdinando, erede della Corona di Sicilia e di Aragona, ma non solo per calcolo politico: i due infatti si amavano molto e questa cosa è chiaramente visibile in alcune lettere, conservate oggi nell’Archivio Generale di Simancas, oppure dal comportamento di Ferdinando quando seppe che sua moglie era morta. Sono documenti che ci riportano un’intimità che è difficile da immaginare in sovrani di quest’epoca ma che sono emblematici per capire come anche un Sovrano o una Sovrano sono prima di tutto uomini e donne come noi, con i loro difetti ed i loro pregi. Nel primo caso, in una lettera del 14 Luglio 1475 (Isabella aveva 24 anni e Ferdinando 23) Ferdinando si lamenta con sua moglie di dover vivere separati a causa dei tanti problemi di cui soffrivano i loro Regni e le fa questa dichiarazione d’amore «solo Dio sa ciò che mi rattrista nel non vedere vostra Signoria la mattina, e vi giuro per la vostra vita e per la mia che amo come non mai»[12]. Per quanto riguarda il secondo caso, invece, quando Isabella morì, il 26 Novembre 1504, Ferdinando scrisse una lettera al Condestable de Castilla per comunicargli la dipartita della Regina, affermando «la sua morte è per me il maggior peso che mi poteva capitare in vita»[13].

La personalità e la spiritualità di Isabella sono due aspetti della sua vita poco studiati e ancor meno conosciuti ma che ci mostrano come sia possibile vivere la propria fede pur avendo responsabilità di governo, anteponendo la gloria di Dio alla gloria del mondo. Lanciandosi in imprese che venivano viste come folli (la riforma dello stato) o dispendiose (la Reconquista di Granada), più attenta al culto di Dio che al potere temporale, la Regina seppe agire in ogni occasione applicando le virtù cardinali della Giustizia, della Fortezza e della Temperanza che dovrebbero essere la bussola di ogni governante.

Francesco Del Giudice


[1] Tutte le puntate sono disponibili all’indirizzo http://www.rtve.es/television/isabel-la-catolica/capitulos-completos/
[2] Si pensi soltanto alle pagine dedicate a tutti i Presidenti del Consiglio italiani, compresi quelli che hanno governato per pochi mesi.
[3] Nei manuali di storia, la Spagna “appare e scompare” in continuazione, a differenza di altri Stati che vengono invece seguiti in ogni momento. Provare per credere. Generalmente si trovano due righe o poco più solamente su questi cinque argomenti: conquista musulmana del 711; reconquista di Siviglia nel 1248; matrimonio tra Isabella e Ferdinando nel 1469; conquista di Granada, “espulsione” degli ebrei, I viaggio di Colombo (tutti e tre gli eventi sono del 1492). Il Regno di Carlo V è più o meno presente in un capitolo dedicato al XVI secolo; la scoperta e la conquista dell’America vengono studiate in uno, massimo due, capitoli ma sempre come evento a sé stante ed il Regno di Filippo II è l’ultimo argomento citato dai manuali: terminato el siglo de oro, dobbiamo aspettare la Guerra Civile per poter studiare nuovamente qualche avvenimento spagnolo. E’ emblematico anche il fatto che l’indipendenza dei paesi ibero-americani sia relegata ad una semplice annotazione, mentre la Rivoluzione Americana ha un proprio capitolo ed è vista come qualcosa di diverso dalla storia inglese.
[4] Provate ad andare nella Biblioteca Nazionale di Roma, in Sala Umanistica, e cercate i volumi a scaffale relativi alla Storia della Spagna: la polvere depositata sopra questi testi è visibilmente maggiore rispetto ai volumi posti affianco relativi ad esempio alla Francia o all’Impero.
[5] Per Leggenda Nera si intende, soprattutto nella cultura spagnola e ispanofona, un insieme di nozioni, dicerie e racconti volti a sminuire l’immagine ed il ruolo della Spagna, in particolare nel periodo del Siglo de Oro. Si tratta di una vera e  propria opinione costruita e diffusa a partire dal nel XVI sec. che perdura ancora oggi. Elementi ricorrenti della Leggenda Nera è l’Inquisizione, la conquista dell’America e il cosiddetto genocidio degli indios. Principale promotore della Leggenda Nera fu l’Inghilterra elisabettiana in chiara polemica politico-culturale-religiosa contro Filippo II, visto come il difensore del Papato e della Cattolicità.
[6] Per essere precisi, Isabella aveva il titolo di Regina di Castiglia-León, mentre Ferdinando deteneva quello di Sicilia e di Aragona. Il concetto politico di Spagna come lo intendiamo oggigiorno è anche frutto del loro matrimonio, che portò infatti ad una unificazione personale delle due principali Corone iberiche. Per ovvie ragioni di brevità e semplicità, useremo in questo articolo il termine Spagna al posto di Castiglia, Aragona, León, etc.
[7] «Contemplativam tamen magis agere vitam quam activam videbatur»: Lucio Marineo Sículo, De Rebus Hispaniae memorabilibus, Alcalá 1533.
[8] «Horarium quoque sacerdotum more quotidie persolvebat»: Ibidem.
[9] Venne ordinato ai vescovi di riporre l’ostia consacrata in casse d’argento, di tenere puliti e ben ordinati gli addobbi e il necessario per la Messa e di tenere accesa la lampada davanti il Santissimo. Con ogni probabilità, Isabella aveva dei veri e propri informatori sul culto che la informavano di tutti gli abusi che si commettevano. Il documento è conosciuto come Las XXX cartas a los Obispos, è datato Granada 17 Agosto 1501 ed è conservato nell’Archivo General de Simancas (AGS, CCA,CED,5,204,4).
[10] Favor a la Orden de San Francisco. Dogma de la Inmaculada, AGS,CCA,CED,6,109 v. – 110 r.
[11] «Esto hazia de hombres leones, y de vasallos, esclavos; no se le iban los soldados fugitiuos»: Andrés Bernáldez, Historia de los Reyes Católicos D. Fernando y Doña Isabel, cit., p. 257.
[12] «Sabe Dios lo que me pesa de mañana no ver a vuestra senoría, que juro por vuestra vida y mía que nunca tanto ame»: AGS,ESTADO,Leg 1-1, f.180.
[13] Carta al Condestable de Castilla comunicándole la muerte de la Reina, AGS,PTR,DOC.1, 2r.

lunedì 21 novembre 2016

Cos’è ed a cosa serve la filosofia? 

Questo blog di formazione cattolica da oggi inizia ad ospitare una nuova rubrica, dedicata alla Storia della Filosofia, che si intitola Quid est Veritas? riprendendo (volutamente) la domanda che Ponzio Pilato rivolse a Gesù durante l’interrogatorio prima della condanna a morte. Ovviamente il nome della rubrica è emblematico del nostro porci dinanzi alla questione cardine della filosofia, vale a dire la ricerca della Verità che si è declinata in ulteriori domande e che tutt’oggi, a fronte di una presunta morte della filosofia, non cessa invece di interpellare l’uomo. Allo stesso modo, se si parla di verità si parla anche di una utilità (nel senso di “essere di aiuto”) della filosofia per la vita dell’uomo. Seguire un sistema filosofico rispetto ad un altro, pertanto, non è una cosa di poco conto ma, anzi, determina un diverso atteggiamento rispetto sia alla considerazione si sé stessi sia rispetto a tutto ciò che ci circonda.

Che cos’è la filosofia? Ritengo che un’ottima risposta possa essere la seguente: la filosofia è la disciplina che cerca di rispondere alle 5 domande profonde dell’uomo: 1) Chi siamo; 2) Da dove veniamo; 3) Dove andiamo; 4) Come siamo; 5) Perché siamo[1].

Come è facile capire, non mi piace la definizione che va tanto di moda nei manuali scolastici che corrisponde alla traduzione letterale dell’etimologia del termine, vale a dire l’amore per il sapere. Una definizione del genere, infatti, non mi soddisfa per nulla in quanto non risponde al perché è necessaria una filosofia per essere amante del sapere. Mi spiego meglio: uno studente in medicina ama ciò che studia? Vale a dire, ama il sapere della scienza medica? Certamente, ma egli non è un filosofo. Uno storico dei Normanni ama lo studio della scrittura beneventana? Ovviamente, altrimenti farebbe meglio a cambiare mestiere ma non è un filosofo, benché ami il sapere della scienza paleografica. Capite bene da questi due esempi che ognuno di noi ama ciò che reputa giusto e buono (e che, pertanto, conosce) ma non tutti siamo filosofi. Anche la stessa Storia della Filosofia, a ben vedere, non da ragione a questo tipo di risposta dal momento che i primi filosofi, anziché bearsi della propria conoscenza, si misero invece a cercare in ogni modo possibile, con la sola forza della ragione, il perché e l’origine delle cose, ed una volta individuato non lo tennero segreto per se ma cercarono in tutti i modi (con i propri scritti, con orazioni/lezioni pubbliche, con la fondazione di scuole, etc) di trasmetterlo a quante più persone. La definizione l’amore per il sapere ha in sé, secondo il mio parere, anche un altro difetto in quanto parte dal presupposto che il filosofo sia una persona estranea alle cose del mondo e che se ne vada alla ricerca di saperi o arcani o troppo elevati: se così fosse ci troveremmo dinanzi ad uno gnosticismo (che potrà essere o razionalista o esoterico) piuttosto che ad una sana filosofia.

Ha senso parlare di filosofia oggigiorno, in un’epoca (non per nulla definita post-moderna) in cui il pensiero dominante consiste nella negazione di qualsiasi verità? Sembrerebbe di no in quanto, anche nel mondo universitario, ci sono facoltà universitarie di filosofia che organizzano dei convegni su “l’inutilità della filosofia” oppure professori che gridano “la morte della filosofia” ai loro stessi allievi: ma vi assicuro che non è così in quanto la filosofia non è morta né potrà mai morire. Semmai sta scomparendo una corretta filosofia, non la materia stessa. Finché vivrà anche solo un uomo, la filosofia ci sarà in quanto egli, e nessun altro essere potrà farlo, agirà e ragionerà secondo un proprio modo di pensare. La posizione dei “filosofi” che negano valore alla filosofia è contraddittoria in se stessa in quanto essi per primi negano validità alla loro filosofia! E, allo stesso modo, anche chi nega che la filosofia sia morta, sta facendo un ragionamento filosofico. E come possiamo dire con certezza che si tratta di un ragionamento filosofico? Perché risponde sempre, per l’appunto, a tutte (o solamente ad una) le 5 domande di cui parlavo sopra: se, infatti, io sono (domanda) posso filosofare (è inconsapevole in questo la domanda: come sono?). Ma se sto filosofando sull’inutilità della filosofia, io sto dando un valore negativo o al passato (da dove vengo?) o al futuro (dove vado?). E se sto filosofando sul perché della filosofia, mi sto ponendo l’ultima domanda poiché la domanda di senso riguarda sia me stesso che la filosofia stessa.

La filosofia infatti accompagna da sempre l’uomo anche se l’abbiamo vista apparire in Grecia in un preciso periodo storico (ne parleremo meglio la prossima settimana) quando, cioè, ha iniziato ad affrancarsi dalla religione pagana e dal mito per poter astrarre ed indagare l’origine ed il fondamento di tutte le cose. Ogni uomo che in una notte stellata, vedendo il cielo sopra di sé, si interroga su se stesso (e, quindi, anche sullo stesso cielo stellato) sta filosofando perché compie un’astrazione e si eleva sopra tutti gli altri esseri che lo circondano.

Si capisce pertanto quanto sia importante capire bene sia la Filosofia che la Storia della Filosofia: questo blog cercherà di occuparsi principalmente di quest’ultima disciplina perché è la materia con cui hanno a che fare tutti gli studenti liceali ma anche tutti quegli appassionati che leggono le opere principali di un singolo Autore. Ovviamente faremo riferimento anche a singole tematiche filosofiche e cercheremo anche di dare definizioni delle problematiche di cui tratteremo, come anche dei principi che devono guidare la giusta speculazione filosofica.

Chi sbaglia filosofia finirà col pensare in maniera sbagliata e, quindi, finirà anche con l’agire in maniera scorretta. Dalla comprensione dei principi fondamentali deriva tutto il resto, e questo accade in ogni sistema filosofico: San Tommaso d’Aquino, riprendendo Aristotele e il pensiero classico, ci ha insegnato che l’agire segue l’essere e che, quindi, ognuno di noi (volente o nolente) agisce secondo un proprio modo di intendere sé stesso e il mondo che lo circonda. Questo principio è facilmente dimostrabile grazie all’esperienza: un tifoso romanista difficilmente vedrà una partita della Lazio per il semplice gusto di vedere una partita di calcio. Questo tifoso agisce in questo modo perché è già romanista, non il contrario.

Noi crediamo che ci sia stato un periodo, coincidente con San Tommaso d’Aquino e la (sana) Scolastica, in cui la ricerca della Verità ha raggiunto il suo apice: a partire dal razionalismo cartesiano, invece, siamo in un continuo vacillare dinanzi a qualsiasi verità ed oggi, alle soglie degli anni ‘20 del XXI secolo, ci troviamo dinanzi ad un mondo che tuttavia deve essere scosso dal suo torpore relativistico (ogni verità è vera = la verità diventa debole) e da un atteggiamento utilitaristico nichilista (non esiste alcuna verità = l’unico metro di valore è dato dall’utilità) cui però abbiamo l’obbligo di gridare che «conoscerete la Verità e la Verità rende liberi»[2].

Francesco Del Giudice



_______________________________________
[1] Queste domande, ovviamente si possono rivolgere a tutte le cose che ci circondano.

[2] Cfr Gv 8, 32.

sabato 19 novembre 2016

Cos’è ed a cosa serve la storia? 
Da oggi 19/11/2016 questo blog inizia ad ospitare una nuova rubrica, dedicata alla Storia, che si intitola Lux Veritatis, a cura del dottor Francesco Del Giudice, Voce del Verbo.

Cos’è la Storia, e che senso ha parlarne oggi, in cui siamo tutti presi dal vivere il presente e proiettati continuamente verso il futuro? Che senso ha perdere il proprio tempo (in particolare quello scolastico) per studiare cose avvenute secoli fa e continuare a parlare di persone morte delle quali, spesso, non sappiamo neanche che volto avessero o dove sono sepolte?

La Storia infatti oggigiorno è vista, mi si permetta l’ossimoro, come una famosa sconosciuta, ovvero tutti ne parlano ma nessuno sa di cosa si parla: chi non potrebbe parlare per almeno un’ora dell’Inquisizione senza mai aver letto un solo documento sull’argomento? Non avete mai sentito discussioni e trasmissioni sulle Crociate dove non si nomina nemmeno un papa o un condottiero? Ma, contemporaneamente, avete mai sentito un elogio sulla storia o sugli storici? Chi studia queste cose non viene visto come una specie di reperto archeologico? Generalizzando, infatti, possiamo dire senza ombra di dubbio che si parla di storia e di argomenti storici senza sapere di cosa si stia parlando, pensando contemporaneamente che sono cose superate e di poca utilità. Ma attenzione: non è vero tutto ciò in quanto noi stessi siamo immersi nella storia, ci piaccia o non ci piaccia.

Ogni nostra azione infatti, avviene nel piano temporale cosicché il mio presente diventa presto il passato, il mio futuro diventa il mio presente e lo stesso futuro sarà un giorno il mio passato. Siamo esseri storici e tutte le nostre azioni (dalla più banale alla più importante) sono eventi storici che si presentano sempre legati indissolubilmente ad una causa ed ad una conseguenza: non è possibile infatti scindere questa triade (causa-evento-conseguenza) che possiamo tranquillamente tradurre con passato-presente-futuro. Facciamo un caso banalissimo, relativo a questo articolo: io ho studiato storia (passato / causa) – sto scrivendo di storia (evento / presente) – qualcuno leggerà questo articolo (conseguenza / futuro). La triade c’è, ed è impossibile romperla perché anche se, per ipotesi, nessuno leggesse sul blog questo articolo, lo dovrò fare io stesso prima di pubblicarlo.

Ovviamente le azioni degli uomini non sono tutte uguali cosicché la firma di un Trattato di Pace sarà molto più importante dell’articolo che sto scrivendo, come anche l’elezione del Presidente Trump è stata molto più importante della nascita di un bambino in una qualsiasi parte del mondo avvenuta nello stesso giorno. Ogni fatto storico, inoltre, è sempre diverso dagli altri che, benché simili, possono avvenire nello stesso momento giacché ogni evento, oltre ad essere legato al piano storico è infatti condizionato a quello geografico: Trump è stato eletto in America, non in Brasile; io sto scrivendo da casa mia, a Segni, e non da Torino, distante chilometri e chilometri da me; Colombo partì alla volta dell’America da Palos (Spagna) e non da Lisbona (Portogallo), e così via. Ogni fatto propriamente storico pertanto, è legato indissolubilmente al tempo ed allo spazio, e la sua importanza è data dalle conseguenze che esso produce: più le conseguenze sono grandi, più l’evento è degno di essere riportato sui libri di storia. Si capisce dunque perché la storia abbia (e deve per forza avere) un andamento lineare, con un inizio e una fine, e non ciclico, cioè che tende a ripetersi, perché le azioni di ciascuno sono sempre diverse le une dalle altre.

Fatta questa premessa, necessaria per riflettere sul fatto che noi stessi siamo personaggi storici (benché spesso non ce ne accorgiamo, proiettati come siamo alle esigenze del presente), possiamo capire meglio cosa significhi il termine “Storia” (rigorosamente con la S maiuscola). Oggi, infatti, il termine Storia ha assunto diverse accezioni che non richiamano assolutamente il senso originario e proprio del termine: si usa per definire genericamente gli eventi passati (storia del XVII sec., etc); la ricostruzione soggettiva del proprio passato (la mia carriera/storia scolastica, etc); alcuni fatti ritenuti degni di nota (“non c’è stata più storia dopo il 3 gol”, etc) e così via.

Il termine Storia deriva dal greco ίστορίή (l’historia latina) che significa ricerca ma anche resoconto (di ciò che ho visto) e, quindi, sapere, meglio ancora, sapere perché ho visto. Lo troviamo usato per la prima volta nel V secolo, ad Atene, prima da Erodoto (484 a.C. – 425 a.C.), considerato infatti Padre della Storia, e poi da Tucidice (460 a.C. – 400 a.C.). Il termine non nasce immediatamente legato allo studio del passato ma, bensì, ha una valenza più ampia poiché è un metodo di ricerca del reale e, contemporaneamente, di conservare/trasmettere la memoria per poter meglio vivere: essa è pertanto ricerca del vero che coinvolge, come termine, anche aspetti etici e morali. Quest’approccio ci porta ad indagare il come ed il perché delle cose, andando a ricercare pertanto sia le cause che i fini.

Tramite la Historía, quindi, si descrive e si interpreta un fatto concentrandosi sia sulle modalità che sulle cause: nasce, in questo modo, la differenza tra Storia ed Antiquaria (vale a dire la semplice trasmissione, o la messa per iscritto, di fatti senza alcun giudizio o indagine critica [1]); poiché propone dei modelli, inoltre, la storia educa ad una visione del mondo e ci fornisce dei comportamenti esemplari. Gli stessi Vangeli si situano nel solco di questa tradizione cosicché si può raccontare ciò che so perché ho visto (il Vangelo di Giovanni è pieno di attestazioni di questo genere da parte dell’Apostolo) oppure ciò che è frutto di un’attenta ricerca (si veda il Prologo del Vangelo di Luca) e che gli altri possono prendere come verità in quanto ciò che si è detto non è mai stato smentito.

Per Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.) la Storia è «testimone del tempo, lume di verità, sopravvivenza della memoria, maestra di vita, messaggera del passato»[2]: la Storia è dunque utile anche per le future generazioni (la natura umana infatti è e sarà sempre la stessa) perché permette di conoscere, imparando, sia gli errori (da evitare in futuro) che le glorie (da tentare di ripetere). Si capisce dunque l’esclamazione di Plinio il Giovane (61 – 113) nei riguardi della Storia: «quanto potere, quanta dignità, quanta maestà, infine, quanta numinosità siano insite nella storia»[3].

Venendo ai nostri giorni, è molto bella l’immagine offerta dal filosofo francese Henri Bergson (1859 - 1941) il quale afferma che «in realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt’intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza»[4] che possiamo mettere assieme ad un’altra bella definizione di Henri Irenée Marrou, il quale ci insegna che «la storia è l’incontro, il rapporto posto in essere dallo storico tra due piani di umanità: il passato vissuto dagli uomini di un tempo e il presente in cui si sviluppa tutto uno sforzo inteso a rievocare questo passato, perché ne tragga profitto l’uomo, cioè gli uomini che verranno»[5] in quanto «fine dello storico è proprio quello di guardare al passato con uno sguardo razionale, capace di impadronirsene, di comprenderlo e, in un certo senso, di spiegarlo: uno sguardo che noi non potremo mai gettare sul tempo presente»[6] (verità invece oggigiorno dimenticata o negata, protesi come siamo sulla cronaca e sulla cosiddetta Contemporaneità).

Ma è Giovannino Guareschi che, senza scrivere mai un testo di metodo storico, a mio parere, probabilmente ha scritto la più bella definizione del rapporto tra il passato ed il presente e, quindi, di come l’uomo si deve porre dinanzi alla storia ed ai propri antenati (conosciuti o sconosciuti poco importa). Il papà di Don Camillo sta narrando la cerimonia per l’annuale festa degli alberi ed il Sindaco Peppone, inizialmente restio a parlare in pubblico su questa festa, si lascia invece prendere da una riflessione profondissima, su un gesto semplice come la piantumazione di un alberetto, per di più compiuto da bambini: «gli alberelli che adesso voi bambini pianterete dentro la terra sono come il legame fra la morte e la vita: fra la vita che sta sopra e la morte che sta sotto. E se l'avvenire dell’albero e il suo progresso verso l'alto sono sopra la terra, le radici sono sotto la terra. E ciò significa che l'avvenire è alimentato dal passato»[7].

Guareschi fa terminare il discorso di Peppone con un’invettiva che facciamo nostra e che, ci auguriamo, possa servire anche a tutti i lettori del blog per capire l’importanza della Storia, rigorosamente con la S maiuscola: «guai a coloro che non coltivano il ricordo del passato: sono gente che seminano non sulla terra ma sul cemento»[8].

Francesco Del Giudice

_____________________________________
[1] «La narrazione di trasformò in storia, il giorno in cui la filosofia se ne impadronì per animarla, per dirigerla […] Gli uomini non potevano nulla contro il Destino, se non opporre a esso la loro intelligenza e la loro virtù. Saperevano che la fatalità avrebbe avuto l’ultima parola: ma, siccome era loro impossibile restare passivi e muti, si sforzavano di conquistare da qualche parte, all’interno del cerchio, un piccolo posto per la libertà. La storia è una manifestazione di questo sforzo […] I fatti sono legati da leggi permanenti e necessarie. Ma lo studio nel passato delle cause e degli effetti permette di prevedere l’avvenire. La storia è dunque un mezzo, anch’essa, per preparare un piccolo spazione alla libertà. Senza la filosofia, presso i greci la storia non sarebbe mai nata. Questi l’hanno trasmessa i romani»: Gonzague de Reynold, Gonzague de Reynolde raconte la Suisse et son histoire, Payot, Losanna 1965, p. 6, traduzione di Giovanni Cantoni.

[2] «Testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis»: Cicerone, De oratore, 2, 36.

[3] «Quanta potestas, quanta dignitas, quanta maiestas, quantum denique numen sit historiae»: Plinio il Giovane, Epistulae, 9, 27, 1.

[4] Henri Bergson, L’evoluzione creatice, Laterza, Bari 1957, p. 62.

[5] Henri Irenée Marrou, La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna 1962, p. 33.

[6] Ibidem, p. 44.

[7] Giovannino Guareschi, Ricordando un vecchia maestra di campagna, Tutto Don Camillo, p. 2030.

[8] Ibidem.